Erano gli anni ‘90 e l’industria della moda, nonostante qualche vago presagio di crisi, era ancora in gran tiro. Ma il ragazzo non si era mai voluto occupare di vestiti e così suo padre, di malavoglia, l’aveva mandato a studiare, purché prendesse economia o legge. Lui avrebbe voluto fare altro, ma a vent’anni non aveva saputo opporsi, e poi c’erano la macchina nuova, le vacanze all’estero, le serate in discoteca a distrarlo. Fare altro, certo. Facile a dirsi. Ma altro cosa?
Passarono gli anni, molti di più dei quattro previsti dal piano di studi. Presa la laurea, suo padre non volle sentir ragioni: il posto di direttore amministrativo gli sarebbe spettato di diritto, dopo qualche anno di pratica, beninteso. Presto avrebbe occupato il grande e tranquillo ufficio sul retro, con vista sulle colline fiorentine, ma per un po’ doveva accontentarsi di una stanzetta che dava sull’A11, proprio nel punto in cui questa si innesta nell’A1. Entrando in quell’ufficetto, suo padre sospirava sempre. Gli davano fastidio la polvere e il rumore, soprattutto il rumore dell’autostrada, e dopo pochi minuti approfittava di una scusa qualunque per andarsene, mentre lui restava lì, alle prese con un apprendistato inutile e ozioso, per il quale veniva assurdamente retribuito.
A volte, veniva preso dall’angoscia. Un’ansia insidiosa, potente, inspiegabile per uno come lui, che aveva tutto, che a neppure trent’anni aveva già un ottimo impiego, una carriera sicura. Così gli ripetevano sua madre, le sue ragazze e il medico, a cui si rivolgeva sempre più spesso per le medicine che lo aiutavano a dormire. Lo psicologo no, da quelli lui non andava, li riteneva dei ciarlatani.
Ripensando a quegli anni, ricordava soprattutto l’autostrada. Nella sua stanzetta non succedeva mai nulla, ma lungo l’autostrada la vita scorreva veloce, giorno e notte. E che vita! Verso Milano, sfrecciavano le macchine dei manager delle grandi aziende, sempre col telefonino incollato all’orecchio, sempre presi da problemi di organizzazione, prodotto, vendite. Si immaginava le loro riunioni, i loro discorsi concitati, quasi brutali. Li vedeva slacciarsi la cravatta, tirarsi su le maniche della camicia mentre si agitavano di fronte ad un proiettore, cercando di convincere i loro capi. Stress, sudore, tempi incalzanti e la costante minaccia di un mercato che non tollera errori!
Verso Roma, le automobili dei politici e dei giornalisti, immersi in questioni grandi, astratte, appassionanti. Li immaginava al bar, di fronte al millesimo caffè, sempre chiacchierando, sempre con la testa fra le nuvole. Lontani, mille volte lontani dal quotidiano. E alla notte se li figurava soli nella redazione ormai vuota, di fronte al computer o alla macchina da scrivere, mentre mettevano alla prova la loro creatività.
Lungo l’A11 in direzione Firenze, vedeva passare le utilitarie degli insegnanti, anche loro pieni di pensieri, di preoccupazioni per i loro alunni, per le relazioni coi colleghi. Una classe di liceali, oppure un istituto tecnico. Immigrati, ragazzi disagiati, spiegazioni ripetute fino alla noia. Anche grida, rimproveri, scatti d’ira e esplosioni d’emotività adolescenziale. Ma, in fondo, passione per la materia, per un lavoro che ti fa sentire davvero vicino alla società e ai suoi mutamenti.
Come sarebbe stato bello viaggiare come loro, sospinti dalla miriade di problemi quotidiani, e poi fermarsi per bere un caffè all’autogrill, spengere il telefonino e riposarsi per qualche minuto, senza dover pensare al vuoto, all’inutilità della propria esistenza!
Un giorno, pensava, si sarebbe unito anche lui al pulsare della vita lungo quel nastro d’asfalto, e si sarebbe lasciato alle spalle tutto, tutto, per vivere, finalmente. E forse, passando veloce sull’A1 vicino alla chiesa di Michelucci avrebbe lanciato uno sguardo verso il suo vecchio ufficio e avrebbe persino avuto difficoltà a riconoscerlo, tanto piccola e misera gli sarebbe parsa la fabbrica di suo padre. Ma sarebbe stato solo un attimo, perché immediatamente dopo avrebbe schiacciato l’acceleratore per andarsene via, per sempre.