Quando inizio a vedere l’albero in mezzo al guard-rail so che sto per arrivare a casa.
Sono cinque anni ormai che passo almeno due ore al giorno su questa maledetta autostrada. E più passa il tempo, più aumenta la probabilità di morire schiacciata da un camion. Lo so, sembra macabro tutto questo, ma è pura statistica.
“Biglietto, prego”. Alzo gli occhi e vedo una faccia nuova. Ormai li conosco tutti. “Buona sera. Ecco qui”. “Ecco il resto, buona serata”, mi dice con un mezzo sorriso. Ha gli occhi piccoli, vispi, un viso irregolare, sembra balcanico, è magro e i capelli arrivano alle spalle.
Il giorno seguente, quando arrivo all’altezza dell’albero, mi ritrovo a pensare a quel mezzo sorriso. C’era una punta di sarcasmo che continua a ronzare nella mia mente. Chissà com’è guardare dall’alto della cabina centinaia di facce, ognuna con una storia da raccontare, un luogo da raggiungere, un oggetto da portare, persone da incontrare.
Sto per arrivare al casello, sento un rumoraccio provenire dal motore. “Oddio, speriamo non si fermi l’auto, è quasi buio”. Il mio catorcio rallenta di botto e inizia a tossire. Sempre più piano. Vedo le luci del casello. Accosto infilandomi nella pista dei trasporti eccezionali. Arriva un tizio con il giubbino arancione. “Signora, non può fermarsi qui”. Esco dall’auto “Lo so, ma l’auto è morta”. Il tizio si avvicina “Signora, se è convenzionata chiami il soccorso stradale, perché se lo chiamo io le costa”.
Comincio a rovistare in auto. “Buona sera. Posso aiutarla?” Mi giro ed è il casellante dal viso balcanico e gli occhi piccoli. “Non trovo il numero di telefono del mio soccorso stradale, accidenti!”.
“Sto io con la signora, tu vai a dare il cambio, ti aspettano” e mentre lo dice ricompare quel sorrisetto sarcastico che avevo già visto. “Trovato!, adesso chiamo”.
“Venga signora, le faccio strada. Non può stare qui. Intanto che aspettiamo il soccorso stradale, l’accompagno nel fabbricato di stazione. Attenta a dove mette i piedi, dobbiamo scendere nel sottopasso”.
Io lo guardavo un po’ perplessa. Ma effettivamente con quel buio non avevo voglia di stare lì. Entriamo in un cunicolo umido, pieno di cavi e tubi alle pareti. Man mano che guardo i suoi piedi davanti ai miei, vedo salire sulla sinistra varie scalette di ferro che portavano alle cabine.
Arrivati in fondo, pochi gradini, e siamo nel fabbricato centrale di stazione. Mi accompagna in una stanza con una cucina ed un erogatore di bevande calde.
“Vuoi un caffè?” mi dice girandosi verso l’erogatore e con la chiavetta già pronta in mano.
Accetto un tè caldo, un po' infreddolita.
“Non ero mai stata in queste casette, mi hanno sempre incuriosito”, cercando di spezzare il silenzio che si era creato. “Ah, certo” mi risponde, tagliando il mio tentativo di conversazione.
“Ma come funziona qui? Riuscite anche a mangiare? Non pensavo ci fosse una cucina” riprovo ancora. “Sì certo, abbiamo turni da otto ore, anche le notti”. Il posto è un po’ grigio e si sente il rumore dei freni dei camion che rallentano e soffiano come Grisù.
“Lavora da tanto tempo qui?” provo a chiedere. “Sì, ma in un'altra barriera. Sono in trasferta questa settimana”. Squilla il suo telefono. “Pronto, sì sono io. Bene! Ottima notizia! Quando esce? Già tra due mesi? Va bene, va bene, ci sentiamo domani. Grazie ancora”.
Mi guarda con un sorriso e, al mio punto interrogativo sul volto, risponde dicendo: “Pubblicano il mio primo libro”. Lo fisso sorpresa e gli chiedo se fa lo scrittore. Mi spiega che in realtà fa l’esattore per mantenere la famiglia e poter continuare con le sue ricerche storiche su Tito e sull’ex Yugoslavia. Il part time gli consente di girare per gli archivi e studiare.
“Mi sono laureato in storia in Italia, vengo dall’Istria, mia nonna mi parlava italiano. Poi ho conosciuto mia moglie, e sono rimasto, diviso tra il casello e la storia. Sapessi quanti libri ho letto quando a notte fonda iniziano a passare pochi veicoli”.
“Immagino non sia semplice lavorare all’Università in Italia”, provo a dire. “No, ma ho degli amici che si sono trasferiti negli Stati Uniti, e lì è tutt’un’altra storia”.
Alza gli occhi verso l’orologio. “Bene, è finita la mia pausa. Aspetti qui il soccorso stradale” e in modo molto sbrigativo mi porge la mano e imbocca la porta d’uscita, indossando il giubbino arancione in Alta visibilità.
Dopo circa cinque anni, leggendo il giornale, trovo un trafiletto “Storico ucciso a New York”. Non l’avevo mai più incrociato. Leggo che aveva pubblicato altri cinque libri ed era diventato uno studioso apprezzato a livello mondiale. Aveva appena chiesto un’aspettativa e stava per trasferirsi nella Grande Mela, con un probabile incarico di insegnamento. Peccato che uno degli amici che si erano trasferiti prima di lui, invece di aiutarlo, dopo averlo ospitato, l’ha ucciso con un colpo di pistola alle spalle, un sabato mattina di gennaio.